“Se le tue azioni ispirano gli altri a sognare di più, imparare di più, fare di più e diventare di più, sei un leader.”
Parto con la citazione di John Quincy Adams per evidenziare da subito l’obiettivo con cui scelgo di ospitare Professionisti: condividere la loro esperienza, fonte di ispirazione, di valore per chi cerca stimoli per apprendere, sognare e fare di più. Coinvolgo persone che ritengo essere leader di se stesse prima di tutto, ovvero chi fa accadere le cose, a partire dal proprio successo (che per me è il raggiungimento dei propri obiettivi professionali, ben definiti) e che non aspetta l’opportunità ma la costruisce.
Per questa nuova intervista ho pensato di coinvolgere Chiara Montanari, Capospedizione in Antartide /Antarctic Mindset Trainer/ Speaker/Consulente
Ciao Chiara, ho iniziato a presentarti con un job title, già molto “straordinario”. Ci racconti qualcosa in più su di te?
Come “job title” sono Ingegnere, e sono stata la prima italiana ad aver guidato una spedizione in Antartide. Ho due decenni di esperienza in missioni polari e, finora, ho guidato cinque spedizioni scientifiche in Antartide. Oltre alle missioni polari, la mia esperienza di management e leadership si è sviluppata in contesti molto diversi: dai media digitali nel Regno Unito, alle collaborazioni tecnologiche tra Italia e Cina, fino all’astrofisica presso il Cherenkov Telescope Array.
Unendo esplorazione polare, leadership in ambienti ad alta complessità e ricerca accademica in Teoria Organizzativa (Politecnico di Milano) e Scienza della Complessità (Università di Bergamo), ho sviluppato un approccio per aiutare le organizzazioni a costruire team resilienti, adattivi e capaci di prosperare in contesti ad alta incertezza.
Amo usare le metafore per far emergere sfumature nuove e personali. Se dovessi raccontarti attraverso un’immagine simbolica, quale sceglieresti e perché proprio quella?”
Mi sento un’esploratrice della vita, più di ogni altra cosa. Perché non ho una mappa, ma mi lascio guidare da un istinto profondo, una bussola che punta sempre verso quello che indica il cuore…. anche quando sembra che mi porti molto lontano dai confini sicuri. A tratti non è affatto facile, a tratti è magnifico. Però, alla fine, la ricchezza dell’esperienza mi ripaga e cancella qualsiasi dubbio.
Da bambina che lavoro sognavi di fare? Immaginavi l’Antartide?
Non immaginavo certo di finire in Antartide, pensavo di fare l’architetto perché mi piaceva disegnare e ridisegnare gli spazi della vita, una casa, un museo, un giardino. Poi invece sono finita a studiare ingegneria civile e come tesi di laurea ho scelto la sostenibilità. Ho fatto una tesi che aveva come titolo: progetta un impianto di riscaldamento ad alta efficienza che simula le condizioni di una base in Antartide. Il mio progetto è piaciuto e hanno deciso di realizzarlo veramente in Antartide. E così sono partita.
Ripensando al tuo percorso, quali sono stati quei passaggi che, anche se magari non subito, si sono rivelati veri punti di svolta?
Ci sono stati incontri, tantissimi incontri.
Alcuni quotidiani, altri straordinari, ma sono stati tutti grandi punti di svolta. Tra questi c’è sicuramente l’incontro con l’Antartide, gli spazi di vastità, la vita concitata e frenetica di una base. Mi ha insegnato molto sia sulle relazioni con altri che soprattutto sulla relazione con me stessa.
Poi l’incontro con le scienze della complessità e la lettura di Edgar Morin, che hanno ribaltato il mio modo di vedere il mondo. Fino all’incontro con lo yoga e la meditazione.
Cosa ti ha insegnato l’Antartide?
Mi ha insegnato a prosperare nell’incertezza. Più che insegnato, ha risvegliato in me questa capacità che abbiamo tutti. È da questa esperienza che parto per trasmettere e richiamare nelle persone questa nostra competenza. Lo chiamo “Antarctic Mindset”.
Sei stata la prima italiana a guidare una spedizione in Antartide. Secondo te è possibile fare in modo “straordinario” qualcosa nei nostri lavori di tutti i giorni?
Assolutamente si. Quello che io chiamo Antarctic Mindset- extraordinary mindset for ordinary days- è proprio questo. Se cambiamo lo sguardo, la nostra vita quotidiana diventa un piccolo-grande Antartide. E in realtà lo è già. Il nostro quotidiano non è un luogo statico come pensiamo che sia. È un luogo dove tutto è in continuo cambiamento. In realtà pensiamo di sapere ma non conosciamo nulla, è tutto da scoprire. Non è vero che conosciamo il collega, il capo, il cliente. Sono esseri vivi, molteplici, in continua trasformazione. Se smettessimo di attaccarci alle nostre idee prefissate e potessimo finalmente vivere in connessione con ciò che sta accadendo, avremmo esperienze straordinarie tutti i giorni.
Ed è così che potremmo avere relazioni di gran lunga migliori e diventare più efficaci in quello che facciamo. L’Antartide è natura allo stato puro, non si fa imbrigliare dalle nostre idee, dai nostri giudizi, dai nostri piani e dalle nostre aspettative, ed è così che ci insegna la libertà.
Hai lavorato anche come ricercatrice in Teoria dell’Organizzazione e Innovation Manager. Dal tuo punto di vista, cosa può essere più importante che le organizzazioni implementino come innovazione “urgente”?
Secondo me quello che serve è un salto evolutivo. Come direbbe Edgar Morin, è necessario imparare a concepire la complessità. La complessità non è la complicazione, non è un oggetto pieno di parametri connessi tra di loro, di cui bisogna trovare la soluzione. La complessità non ha soluzione, perché è un sistema vivente, un tutto unico in cui le parti sono nel tutto e il tutto nelle parti.
Ma non siamo ancora capaci di concepire la complessità che ci circonda e quindi vogliamo chiuderla dentro gli schemi riduttivi, semplificati e semplificanti del conosciuto. Eppure ci viviamo dentro. E così facciamo disastri a tuti i livelli. Isoliamo un problema e pensiamo di risolverlo localmente, nello schema che ci siamo messi in testa, senza considerare che quel movimento cambierà tutto il sistema. Non ci preoccupiamo dell’impatto delle nostre azioni e poi ci stupiamo di subirne l’impatto. E soprattutto scegliamo la paura, ci contraiamo, ci irrigidiamo, e poi ci stupiamo di vivere in un mondo contratto e violento.
Per questo ho iniziato il progetto di “Antarctic Mindset”, volevo portare questa esperienza nelle organizzazioni, esplorare insieme agli altri le sfide, per attraversarle e imparare a prosperare in esse.
Ti chiedo una cosa pratica, utile probabilmente a tante persone che ci stanno leggendo: quali sono le indicazioni di massima da seguire per trasformare le incertezze in opportunità?
È difficile da spiegare, io propongo un percorso di allenamento per arrivare a un’esperienza. In estrema sintesi direi che bisogna sviluppare la capacità di attraversare le sfide, costruendo insieme all’incertezza invece di cercare di eliminarla. Imparare ad accogliere gli imprevisti come parte del nostro piano. E non è necessario vincere sempre, ma è fondamentale imparare a considerare gli errori come semplici esperienze.
L’incertezza di per sé non è un nemico, al contrario è l’opportunità che ci permette di lasciare andare le false credenze e ricordarci di noi.
Hai scritto “Cronache dai ghiacci” com’è stato immergerti in questa avventura di scrittura? Cosa ti ha lasciato, dentro e fuori le pagine?
Scrivere è stato un esercizio interessante. È stato molto difficile trovare le parole per descrivere il freddo di meno 50 gradi, la vastità del deserto di ghiaccio sul plateau antartico, le difficoltà nel convivere negli spazi ristretti e confinati di una base scientifica, le imprese di un team multidisciplinare alle prese con sfide impossibili… Eppure è stato un modo per me di tornare a quelle avventure e quando le persone mi dicono che le ho portate in Antartide con quel libro rivivo tutto insieme a loro e ne sono felice.
Siamo ai “saluti finali”: se pensi a una frase “straordinariamente potente” per il nostro mindset, quale proporresti e perché?
Innamorati dell’incertezza, perché è la tua porta sull’avventura dell’esplorazione.
– Ritratto di Chiara Montanari
– Foto di copertina di Fernando GOMEZ su Unsplash