Maggio 7, 2025

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“Se le tue azioni ispirano gli altri a sognare di più, imparare di più, fare di più e diventare di più, sei un leader.”

Parto con la citazione di John Quincy Adams per evidenziare da subito l’obiettivo con cui scelgo di ospitare Professionisti: condividere la loro esperienza, fonte di ispirazione, di valore per chi cerca stimoli per apprendere, sognare e fare di più. Coinvolgo persone che ritengo essere leader di se stesse prima di tutto, ovvero chi fa accadere le cose, a partire dal proprio successo (che per me è il raggiungimento dei propri obiettivi professionali, ben definiti) e che non aspetta l’opportunità ma la costruisce.

Per questa nuova intervista ho pensato di coinvolgere Francesco Limone, Autore de “Il Lato Umano dell’Impresa” || LinkedIn TopVoice, Humanistic ESG Co-Founder, 24ORE Business School Professor, Fortune Italia Contributor.

Ciao Francesco, la tua headline ha iniziato a dirci qualcosa su di te. Cosa vuoi aggiungere per chi ci sta leggendo?
Direi che sono un amante, nel senso di uno che ama 😊. Amo mia moglie, e quest’anno, fra solo un mese, festeggiamo 25 anni di matrimonio! Amo ciascuno dei nostri figli. Amo il mio lavoro. E amo anche vedere imprese che vivono come comunità di persone.

Questa è una delle poche domande che faccio sempre nelle mie interviste e che non può mancare: se ti dovessi presentare con un’immagine metaforica quale sceglieresti e perché?
Un filo di lana. Mi piace essere parte di una tessitura. Abbracciare qualcos’altro e dare vita insieme a qualcosa di più bello. È quello che ho vissuto con Annalisa, quello che sto vivendo con il mio socio ma anche quello che mi accade con tanti colleghi su tanti progetti.

Tre momenti importanti nel tuo percorso professionale: quali sono stati?
Non facile, ma ci provo.
Direi la prima volta che ho partecipato ad un corso sulle soft skills. Io, ingegnere elettronico in consulenza, mi sono detto: “ma io voglio fare questo nella mia vita al lavoro”.
Il secondo forse quando successivamente, da manager della formazione, che ancora pensava che vivere di lezioni, workshop e consulenza di sviluppo organizzativo fosse una vita non realizzabile, ho incontrato una crisi forte del mercato con cui ho perso. Allora mi sono detto: per cosa sono davvero chiamato?
E poi direi le prime riunioni con il mio attuale socio e amico (li metto in quest’ordine perché l’amicizia è nata dopo) Simone Budini per testare i primi passi della nostra Humanistic ESG società benefit. Eravamo incredibilmente generativi senza aver mai lavorato prima insieme. In poco tempo sviluppavamo idee, progetti, contenuti, significativi e compiuti. Ho pensato che fosse un segno molto interessante.

Entriamo meglio nel titolo, parli spesso di senso del lavoro: qual è il senso del lavoro per te?
Il lavoro è espressione della nostra unicità ma anche contribuzione ad altre vite e a qualcosa di più grande. Un paradosso di unicità ed integrazione. È la nostra risposta a domande che ci porta la vita, se solo non la zittiamo con i nostri piani preconfezionato.

 Si fa un gran parlare di integrazione vita-lavoro, il work-life balance. Negli ultimi anni sempre di più è stata utilizzata la definizione di work-life integration. Recentemente ho letto in rete la nuova visione di “work-life blend” per sottolineare un approccio più armonico. Se ho compreso bene, nella visione di integrazione c’è più un bilanciamento e un adattamento; mentre nel blending un continuo mix più fluido. Vengo alla domanda: come facciamo per te, che sei stato anche riconosciuto da LinkedIn nel 2022 Top Voice per l’area “equilibrio vita-lavoro”, a vivere nel modo migliore possibili queste due sfere?
Sei troppo forte. Un paio di anni fa, credo, mi hai fatto scoprire l’acronimo B.A.N.I., che si stava iniziando a usare come evoluzione del V.U.C.A, per il contesto che viviamo. Ora, sono sincero, mi fai scoprire tu il work-life blending. Io penso che il bilanciamento, separare ed allontanare le dimensioni non sia fattibile e non sia nella natura delle cose. Al tempo stesso non credo in un concetto di totale fusione e credo dobbiamo porci attenzione. Anzi, la piena sovrapposizione penso sia fonte di stress e frustrazione. Io credo che la flessibilità e la creatività sulla combinazione di spazi e tempi sia una opportunità. Ma noi siamo sempre figli di un’organizzazione del lavoro industriale. Il lavoro cerca di fagocitare il resto della vita e va “educato”.
A mio avviso una delle nostre maggiori sfide è l’arte della piena presenza. Sapersi dedicare pienamente alle persone che sono con noi nella stanza. Che sia al lavoro, a casa, un pub… E bisogna saper dire di no, saper mettere anche confini. Infine, creare alleanze, coinvolgere chi ci è caro nelle “storie” del nostro lavoro e fare in modo che il lavoro sia un alleato, e non avversario, delle persone che amiamo, ad esempio.

Chi è per te un leader oggi, che caratteristiche ha?
Uno dei miei riferimenti è “Rebuilding companies as communities” di Henry Mintzberg. Lì si parla di Leader di comunità. Persone che non sono distanti e distanzianti ma che vivono la stessa vita della loro comunità. Persone che non pensano di dover cambiare altre persone, ma al più cambiare “con” altre persone. Saper ridere, piangere, mangiare e servire insieme. C’è anche più gusto tra l’altro.

È uscito da poco il tuo libro “IL LATO UMANO DELL’IMPRESA. Vivere la comunità dentro le organizzazioni” (Egea). Cosa ti ha spinto a scriverlo e com’è stata questa esperienza di scrittura?
Approfitto per ringraziarti anche qui perchè molto tempo fa mi hai stimolato a scrivere su LinkedIn riconoscendomi una qualità nella scrittura. Altra prova che il cammino che chiamiamo lavoro è relazionale: le qualità ce le riconoscono gli altri. Negli ultimi anni poi come dicevo ho preso seriamente l’idea che la mia vocazione professionale fosse proprio il contenuto e mi sono dedicato molto di più all’aula. Questo anche grazie ad un forte coinvolgimento da parte del Gruppo Digit’Ed e nella sua 24ORE business school. Ebbene, numerose volte le persone mi chiedevano: ma non hai un tuo libro? Dove posso ritrovare gli stimoli che ci hai portato? Non hai ancora pensato di scriverne uno?
La scorsa estate, era giugno, ho rallentato molto per poter affiancare mio padre in una sua dura battaglia. Qualcuno direbbe che l’ha persa, per me l’ha vinta. È venuto a mancare il sei agosto. In quei giorni ho vissuto seriamente questa domanda, che in verità già sentivo interiormente. Ho contattato la casa Editrice proprio in quel periodo e così mi sono messo in cammino.

Nel libro lo approfondisci, ma come si fa a vivere bene la comunità dentro le organizzazioni?
È tutta questione delle nostre convinzioni. L’organizzazione non è una macchina perché ciascuno di noi non è un ingranaggio. Siamo nelle aziende per con-vivere, non solo per funzionare. Da qui discende tutto. Allora una organizzazione comunità di persone, io e Simone la chiamiamo anche Impresa Umanistica, sa divertirsi insieme, soffrire insieme, vive momenti di convivialità e fa ciò che è il motivo essenziale per cui ci sono le imprese (ma molte se lo sono dimenticato): servire insieme, ovvero fare in modo che il mondo sia migliore e non peggiore attraverso la nostra vita. Un po’ filosofico? Allora direi: ridere insieme, di autoironia e non sarcasmo, non nascondere ma invece fare spazio alla sofferenza, preservare il tempo per break, pranzi (company è cum-panis!) e magari anche aperitivi e cene insieme e periodicamente incontrarsi per rispondere insieme: perché siamo insieme? Cosa concretamente stiamo facendo di utile e significativo insieme?

Sei da sempre molto attento a creare e alimentare relazioni di valore; credi tanto nelle connessioni di valore. C’è secondo te una piccola lista di consigli per vivere efficacemente il “networking”?
Molti amici ne parlano e scrivono più e meglio di me. Cito te, Marco Vigini, Andrea Pietrini, Benedetto Buono ed Enrico Zanieri. E poi c’è chi non ne parla ma lo fa magistralmente come Valeria Bonilauri e Dea Callipo.
Mi soffermo solo su un punto: un desiderio sincero del bene dell’altro. Essere utili, essere un gesto di cura nella vita dell’altro. Motivazione pro-sociale.

Ci saluti con un messaggio finale che hai piacere di condividere con tutti noi che ti stiamo leggendo? Qualsiasi cosa che adesso così, “di pancia”, dopo questo dialogo con me, hai voglia di sottolineare come chiusura del nostro confronto

Vale la pena. Vale la pena amare. A volte si soffre di più, ma si gioisce anche di più. Forse perché, essenzialmente, si vive di più. Non per più tempo. Ma più intensamente nello stesso tempo che abbiamo.

ph. Francesco Limone
ph. Steve Johnson su Unsplash

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