“Se le tue azioni ispirano gli altri a sognare di più, imparare di più, fare di più e diventare di più, sei un leader.”
Parto con la citazione di John Quincy Adams per evidenziare da subito l’obiettivo con cui scelgo di ospitare Professionisti: condividere la loro esperienza, fonte di ispirazione, di valore per chi cerca stimoli per apprendere, sognare e fare di più. Coinvolgo persone che ritengo essere leader di se stesse prima di tutto, ovvero chi fa accadere le cose, a partire dal proprio successo (che per me è il raggiungimento dei propri obiettivi professionali, ben definiti) e che non aspetta l’opportunità ma la costruisce.
Per questa nuova intervista ho pensato di coinvolgere Giulia de Martini, CEO | Head of Research & Partner at TheFabLab | Science & Tech Communication | Speaker & Trainer | Innovation & Industry 4.0 | Art & Science
Ciao Giulia, la tua Headline che ho ripreso online ci dà tante informazioni su di te ma se ti dovessi presentare a dei bambini cosa racconteresti loro?
Sono una persona che ama la scienza e la tecnologia; per lavoro cerco di trasmettere la mia passione perché penso che la scienza e la tecnologia siano importanti per gli esseri umani; li definiscono: abbiamo iniziato a distinguerci dal mondo animale grazie alla relazione con la scienza e la tecnologia, grazie alle scoperte, all’adozione di strumenti che ci hanno portati a raggiungere obiettivi che sono molto lontani dal mondo animale. Guardando la storia dell’umanità con una grande lente, la scienza e la tecnologia ci hanno regalato risultati meravigliosi: siamo più sani, più educati, viviamo più a lungo. Naturalmente, come tutto, ci sono state e ci sono anche parentesi di buio ma di fatto hanno diffuso più benessere e cultura.
E da bambina che lavoro sognavi di fare e quanto oggi sei vicina a quel sogno?
La domanda me la sono fatta tante volte ma non sono mai stata una bambina con una chiamata, con una vocazione; neanche da ragazza e a volte ho invidiato chi invece aveva le idee più chiare. E questo è stato un po’ “dramma” per me. Io volevo essere un po’ tutto e questa cosa la realizzo meglio adesso. Ora, riguardandomi, comprendo come avessi la passione per la passione, che non sono più passioni diverse ma un perenne desiderio di conoscenza e curiosità che sono rimasteinvariate negli anni. Più cresco quindi e più mi sento vicina a quel mio obiettivo perché ho più tempo alle mie spalle che mi fa dire di aver esplorato più mondi diversi. Per questo motivo credo che l’ultimo giorno della mia vita sarà stato quello in cui sarò stata maggiormente vicina a quel sogno di bambina.
Questa domanda la faccio sempre perché amo le metafore, se ti dovessi presentare con un’immagine metaforica quale sceglieresti e perché?
Questa è una domanda che mi mette un po’ in difficolta, la trovo difficile…In questo flusso di conversazione provo a presentarmi con la metafora del mosaico. Può avere il significato della piccola tessera che sa essere presente a se stessa in piccoli contesti ma che, allo stesso tempo, con altre tessere (diverse esperienze) disegna e può comporre significati ampi o più livelli di significati. Mi sento a mio agio in questa immagine dove ci sono più livelli di significato.
Ci racconti qualcosa in più del tuo percorso di studi, fino a ricondurlo alla tua esperienza lavorativa attuale (ti sto chiedendo una sorta di “teoria dei puntini” alla Steve Jobs)?
Per punti chiave, soffermandomi sulla parte degli studi, il primo è la fine delle scuole medie: volevo fare il liceo artistico ma i miei mi hanno consigliato di fare il liceo classico. Ho accettato il loro consiglio, senza ribellione. Quindi la formazione classica.
Secondo punto, il termine delle superiori. Inizialmente sono andata a lavorare per mantenermi poi, dopo una piccola prova, guardando i miei amici, ho deciso di riprendere lo studio. E mi sono iscritta a Fisica non tanto perché volessi diventare una fisica quanto per mettermi davvero alla prova con qualcosa che reputavo difficile (e lo è stato davvero!). Poi ho capito che non avrei fatto la ricercatrice e mi sono fermata ai tre anni, non ho aggiunto gli altri due ma ho fatto un master biennale in comunicazione della scienza, esperienza in cui mi sono definitivamente innamorata della scienza nel modo più esteso possibile, vedendola a 360 gradi e non solo come formule.
Ho iniziato a lavorare, avevo un lavoro definito facilmente in una riga di Job Title ma quei due anni mancanti mi sono tornati spesso in mente. E così, anni dopo, a 35 anni mi sono iscritta di nuovo all’Università, a Biostatistica (statistica applicata alla medicina). Dopo questo percorso ho accettato l’idea di avere un Job Title più lungo e complesso, in continuità con il lavoro più esteso. Grazie a questo percorso sono approdata in “TheFabLab”. E nel frattempo mi sono laureata in pieno COVID, il 26 marzo 2020.
Hai scritto un articolo molto interessante “6 lessons I learned before I beacame who I am”. C’è una di queste sei lezioni a cui sei più grata e, se sì, qual è e perché?
Ne ho scritti sei proprio perché tutti hanno contribuito e non penso che qualcuno stacchi gli altri per importanza. Forse la tre, che è quella legata alla scienza: “Touch science. Use science. Sully science. Speak science. Or it will never be yours.” La scelgo perché credo davvero che ognuno di noi dovrebbe sporcarsi le mani e divertirsi con la scienza, guardare ogni oggetto non limitandosi ad una prima osservazione ma ricercando punti di vista diversi, capire e cogliere con quanti più occhi possibili per raggiungere maggiore chiarezza. Può sembrare retorica ma nella dimensione della procedura per avvicinarsi all’oggetto della conoscenza mi sembra, invece, molto concreto come approccio, lo propongo nelle scuole con in bambini ma anche nella formazione in azienda: il tentativo continuo è cugino primo del metodo sperimentale.
In un tuo post hai parlato in modo originale di un tema che mi appassiona, quello dei multipotenziali. Riprendo le tue parole e ti chiedo di raccontarci a parole l’immagine esplicativa che nel post integra il tuo pensiero:
Nel post tratto le differenze tra generalisti e verticalisti, li metto a confronto: i punti in cui si trovano in vantaggio gli uni e quelli dove sono in svantaggio gli altri. Ho riprodotto un grafico cartesiano su due curve, che non vuole generalizzare ma provare ad osservare queste due distinte propensioni, riportandole sinteticamente su due assi che confrontano età ed elementi di ritorno (nello specifico, secondo questa mia riflessione: realizzazione, felicità, appagamento e successo). Guardandoli in questa prospettiva ho notato che da bambini, nei primissimi anni, le persone che tendono ad essere generaliste, che fanno più cose, sono quelle che sembrano essere percepite con più passioni e sbocchi, vengono ammirate tantissimo (es. “sa fare tantissimi giochi, è attratto dalla chitarra, poi gioca con l’acqua”). Gli altri vengono percepiti come più introversi da stimolare.
Poi al momento degli studi la situazione si inverte completamente: il verticalista con il metodo e il focus, senza distrazioni, appare avvantaggiato e perfetto, mentre il generalista sembra invece la persona in crisi, che non ha l’obiettivo chiaro. Anche nei primi anni del lavoro il verticalista raggiunge velocemente il successo, ha una carriera e un posizionamento più qualificato abbastanza in fretta. Quello che può capitare però è che arrivati all’apice della verticalizzazione, dopo una crescita lineare nella carriera, la curva tenda ad appiattirsi, cioè a stabilizzarsi. Ed è qui che può esserci una sorta di “rivincita” per i generalisti, i multipotenziali. Loro che per 20 anni hanno accumulato le esperienze in tanti modi diversi e magari anche in modo frustante nella ricerca e nell’esplorazione, possono raggiungere fisiologicamente, in questa fase, una crescita della curva più alta, raggiungendo in questo momento la soddisfazione personale in tanti modi diversi così come i diversi mondi che hanno esplorato, seppure sempre restando in superficie, e che ora possono connettere con il loro grande bagaglio.
Si parla tanto di innovazione e a volte questa parola perde di significato. Voi la fate in laboratorio. Come si fa innovazione in laboratorio? L’innovazione ha a che fare con la logica e con il pensiero laterale, è la capacità di immaginare e costruire percorsi mentali in grado di raggiungere risultati fattibili, migliorativi e che permettono di progredire attraverso strategie che non erano state ancora percorse. E questo si ricollega al laboratorio perché è il luogo ideale per allenare il pensiero laterale, con cui non ci si nasce. Quindi si tratta di un esercizio strutturato da fare con una lista di “ingredienti” che stimolano il pensiero laterale e le strategie/ricette nuove. Il metodo laboratoriale così ha una grande potenza ed è per questo che è sempre più comune in azienda l’uso di parole come co-design, design thinking, reiterazione, replicabilità, ecc..
Intelligenze artificiali e mondo del lavoro: qual è il tuo suggerimento per anticipare il futuro?
Come prima risposta dico: fermare il pensiero e guardare, andarci con “i piedi di piombo”. Si tratta di un terreno sconosciuto, le persone che ne sanno davvero nel pianeta non sono più di 1.000 e quelle 1.000 sanno come si costruisce ma non sanno come andrà il mondo con l’intelligenza artificiale. Io ne faccio un uso quotidiano, mi aiuta moltissimo, mi diverte tantissimo, mi dà grandi soddisfazioni ma io stessa ci sto andando con i piedi di piombo.
Siamo di fronte a qualcosa che non conosciamo. Sicuramente questa rivoluzione impatterà sulla società e nel lavoro perché sta cambiando alcuni aspetti ma questa trasformazione non sarà così veloce come pensiamo. La realtà è che oggi ci sono alcune caratteristiche che possono far soltanto immaginare qualche forma di futuro, ma non abbiamo abbastanza dati o strumenti per dire come andrà davvero.
Prima di affrettarci nelle valutazioni e nelle previsioni future dobbiamo osservare, osservarci, ed esplorare cosa succede oggi. Perché dobbiamo ora chiederci come sarà il lavoro tra 60 anni? Cerchiamo di fare un esercizio di ragionamento che ci permetta di guardare prima di giudicare; siamo noi che stiamo facendo i lavori oggi. Perché dobbiamo essere per forza dei disegnatori del futuro con certezze? Possiamo avere suggestioni ma non di più. In sintesi, è troppo presto per le valutazioni.
Sei una Chief Executive Officer – Amministratrice Delegata, lo sottolineo al femminile e già qui ti chiedo una breve riflessione al riguardo. E poi ti chiedo il punto di vista sulle donne ai Vertici, tema sempre più dibattuto quanto numero ancora decisamente poco soddisfacente. Qual è il tuo punto di vista?
Sono molto attenta alla declinazione corretta femminile e ci tengo da quando tempo fa feci una conversazione con una giornalista alla quale chiesi se e come fosse corretto citare avvocatesse, sindache e altre professioniste donne. Fu lei a farmi comprendere la semplicità della riflessione: sono parole legate a un “semplice” numero e frequenza nel ricoprire determinati ruoli. Nel 1700, nel 1800, nel 1900 erano rare, se non assenti, donne in quelle professioni e da qui la declinazione unicamente maschile. Stessa situazione che oggi si vive con le Amministratici Delegate che in Italia non arrivano al 10%, quindi sempre un fatto di dati e numeri (stessa cosa che accade tra segretaria e segretario, sempre questione di numeri). Non c’è una ragione secondo la quale non dovrebbero essere declinate al femminile come tutte le altre parole che si riferiscono a donne.
Rispetto al tema più ampio, stiamo vivendo una trasformazione ma fisiologicamente ci vorranno circa 130 anni prima di apparare questa situazione. Personalmente credo che pur essendo “fisiologico” questo passaggio non possiamo aspettare tutto questo tempo, perché è ora il nostro presente, è oggi il futuro delle nostre figlie. C’è un grande bisogno quindi di accelerare questa transizione e credo che questo non possa essere ridotto ad un tema di formazione per le donne. Qui mi viene in aiuto la fisica: per produrre un’accelerazione è necessario imprimere una forza. Ma sappiamo bene che quando usiamo una forza, dobbiamo fare i conti con le responsabilità e le conseguenze che ne possono derivare: in questo sforzo culturale non dobbiamo e non possiamo permetterci di esasperare movimenti che rischiano di diventare controproducenti.
Ti chiedo di salutarci con una canzone che secondo te può ispirarci quando dobbiamo creare (quale e perché)
Non sono un’esperta di musica ma provo a rispondere alla domanda condividendo il mio vissuto. Per me le canzoni nel momento in cui devo creare sono un elemento di disturbo perché, essendo curiosa, potrei finire poi ad ascoltare la canzone e basta; per questo non ascolto musica quando devo creare. Detto questo, proporrei “I notturni” di Chopin perché secondo me quando si deve creare bisogna circondarsi di bellezza e per me la bellezza sono i notturni di Chopin.
– Ritratto di Giulia de Martini
– Foto di copertina di Anastasiia Klimova su Unsplash