Febbraio 7, 2023

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“Se le tue azioni ispirano gli altri a sognare di più, imparare di più, fare di più e diventare di più, sei un leader.”

Parto con la citazione di John Quincy Adams per evidenziare da subito l’obiettivo con cui scelgo di ospitare Professionisti: condividere la loro esperienza, fonte di ispirazione, di valore per chi cerca stimoli per apprendere, sognare e fare di più. Coinvolgo persone che ritengo essere leader di se stesse prima di tutto, ovvero chi fa accadere le cose, a partire dal proprio successo (che per me è il raggiungimento dei propri obiettivi professionali, ben definiti) e che non aspetta l’opportunità ma la costruisce.

Per questa nuova intervista ho pensato di coinvolgere Massimo Temporelli,  Presidente e Co-Founder di TheFabLab, fisico, Professore di antropologia, scrittore, imprenditore, divulgatore, speaker e podcaster.

Ciao Massimo, ti ho presentato per ora attraverso la tua headline sui social. Nel Job Title, sul tuo biglietto da visita, ti definisci “Homo Sapiens”. Non ti piace essere uno specialista perché ami muoverti tra i saperi. Sei una “celebrità”: presto di nuovo in Rai con un progetto che devi ancora raccontarci, più volte in Sky, lavori da diversi anni per diffondere la cultura dell’innovazione in ogni tipo di aula, dalle scuole elementari alle università, passando per le grandi organizzazioni. La tua storia professionale, però, nasce nei musei, dopo la laurea in Fisica all’Università di Milano con una ricerca sperimentale sulle onde elettromagnetiche e la ricostruzione fedele dell’apparato sperimentale di H.R. Hertz. Hai due grandi passioni: la bicicletta e la chitarra; il tuo motto è: “finché c’è innovazione c’è speranza”. Cosa potresti dirci di meno noto su di te?

Ho radici piemontesi; figlio di un papà artigiano, fabbro, e di una mamma parrucchiera. Quando ero piccolo ho un po’ faticato con queste mie origini. Con il tempo ho capito la forza dei miei genitori nel loro “working class”: erano in primis dei piccoli ma pur sempre imprenditori e intraprendenti, che facevano lavori molto importanti, una il servizio della persona e l’altro l’artigianato italiano, il famoso “made in Italy”. Ho lavorato d’estate con entrambi e questo mi ha insegnato molto, tra il togliere i bigodini e lo stare in bottega, ho sviluppato la capacità di parlare con tutti, sintonizzandomi con le storie diverse. Questa credo sia una competenza fondamentale oggi e che vada sempre allenata, la capacità di essere in relazione con l’altro perché la vita è interazione: bisogna passare del tempo con le persone, ascoltarle, farsi ascoltare e raccontare storie che possano essere di interesse per tutti e non solo per sé.
Non so bene dei miei nonni materni, purtroppo, credo lavorassero in fabbrica; so che da parte paterna, mio nonno ferrava i cavalli, si dice, non so se sia vero, che sia stato l’ultimo maniscalco del Piemonte e questo è un mito di famiglia e del paese in cui vivevo. Io giro sempre, da quando ho aperto il laboratorio, con un ferro di cavallo fatto da mio nonno…
Ecco, ripercorrendo la mia storia penso a quanto sia vero che la storia dell’Homo Sapiens sia circolare: avanza ma evolvendo su sé stessa. Parto nell’artigianato, lavando le teste con mia madre e spostando ferri con mio padre, passo a quell’inevitabile e fondamentale fase di maturazione dove ci si vuole allontanare e quindi tradendo e disobbedendo alle tradizioni di famiglia, studio Fisica (sarei stato il primo laureato in famiglia), quella materia che non era neanche Ingegneria meccanica e quindi ancora più difficilmente comprensibile per loro…Ed eccomi qui, pur non avendo intrapreso un percorso lineare che ha seguito le orme dei miei genitori – che non sarei mai riuscito a fare un po’ per carattere, un po’ per caso e un po’ perché non lo so…- tornato nella bottega: “TheFabLab” è un’interpretazione moderna del fabbro, del maniscalco.
Purtroppo mio padre non ha vissuto abbastanza per vedermi. Mi piacerebbe tantissimo fargli sapere dove sono finito, mostrargli che c’è un pezzo di mio nonno, suo papà, sempre con me, e che anche se sono una persona che usa più la testa che le mani vivo in mezzo al legno, alle saldatrici, alle stampanti 3D, alle circolari, alle persone che lavorano con le mani; qualche volta faccio qualche lavoretto anche io
Questo processo in fisica si chiama “rototraslazione”: mentre traslavo allontanandomi, ruotavo, e alla fine sono tornato al punto di partenza, un po’ spostato in avanti.
Posso dirtene anche un altro di fatto meno noto: sono stato bocciato a settembre alle superiori, quando ancora potevano rimandarti e poi bocciarti, proprio per matematica e tecnologia, le due materie in cui oggi “eccello”, semmai ci fosse un’eccellenza…E fa ridere, mi sono laureato in Fisica, prendendo 30 e lode in matematica…Questo lo condivido un po’ per ricordare ai giovani o ai genitori che quello che succede in quegli anni significa tutto e niente…Può essere un segnale di pericolosità o l’esatto contrario. A me da lì è uscita quella che a Napoli chiamano la “cazzimma”, la voglia di dimostrare che si è molto di più delle circostanze…

Se ti dovessi presentare attraverso uno degli oggetti che collezioni, che hanno cambiato la storia della nostra specie, dalla selce alle moderne tecnologie digitali, quale sceglieresti e perché?

Sicuramente mi ha sempre affascinato e, visto anche il lavoro che faccio, dico il grammofono, che non è il giradischi con i vinili. Mi piace la base in legno naturale, il disco in gomma lacca – materiale bellissimo – e quella tromba, il cosiddetto “cappello della strega”, che è magico…Senza batteria, con poca roba, lo ricarichi con la molla e riparte…
Scelgo questo un po’ perché l’ha inventato un personaggio che amo, Thomas Edison, uomo di laboratorio, che dormiva nella sua fabbrica, e poi perché è tutto meccanico, magicamente potente: emette un suono altissimo attraverso pochi mezzi.
Non lo dico per falsa modestia, credo di non aver nessun talento, ma sapendo mettere insieme strumenti affinati nel tempo (“senza elettronica” come il grammofono) emetto un suono che la gente sente e spero di farlo nel modo armonico, con eleganza. Eleganza per me sta nel capire il collegamento tra le cose, nel non farle stridere tra loro. Io sfuggo alle mode perché sono lento e ho bisogno di tempo; non parlo di verità, ma cerco di aprire la lente, provo a guardare cos’è qualsiasi fenomeno di novità rispetto alla storia dell’umanità e la raccordo, invitando a prendersi il tempo per capire e non accecarsi; per questo spesso non parlo di cronaca.

 

Qual è il tuo errore a cui sei maggiormente grato?

Un errore più che mio, dei miei genitori; mio padre a 18 anni mi passò la responsabilità dell’azienda e questo mi portò a gestire debiti e problemi molto più grandi di me, avevo 19-20 anni, studiavo Fisica. È stata una sfida enorme, un’onda gigantesca, che mi ha forgiato.
Questa difficoltà non la auguro a nessuno ma i problemi succedono e bisogna abituarsi. Oggi non mi sento mai in difficoltà come in quel momento. Ho maturato la consapevolezza e l’audacia che posso farcela perché so che posso dare il meglio di me.
Non so come sarebbe stata la mia vita diversamente ma so che questa esperienza è contata e sia stata la più formativa della mia vita e quindi ne sono grato. Se sono imprenditore, se ho lasciato il museo e sono quello che sono è anche per quell’evento. Paradossalmente, lasciandomi un debito, mio padre, mi ha donato un grandissimo credito.
Credo che per lo sviluppo e l’educazione delle persone una cosa importante sarebbe ragionare su come perseguire delle esperienze similarmente formative: come attivare nelle persone e nelle aziende “la cazzimma”, l’entusiasmo per la vita, quell’intraprendenza nonostante le difficoltà? Come generare e trasferire questa forza che spinge a dare il meglio di sé? È innata? Si allena?
In molti abbiamo perso la fame…Io credo nel valore della competizione, voglio sempre trovare qualcuno più bravo di me, che mi faccia mettere in sfida con me stesso e superarmi. Un atteggiamento che in genere evitiamo perché desideriamo essere “i primi della classe”, vogliamo distanza dal secondo. Anche questa competenza, nel 21 secolo, per me è una di quelle fondamentali che dovremmo imparare, visto che le macchine fanno il grosso, noi dovremmo fermarci a conoscerci, osservarci, “mettere la telecamera” verso noi stessi, perché imparare chi siamo ci permette di dare più valore agli altri, di sapere dove si può dare il meglio di noi..

 

La parola innovazione è spesso abusata, a volte portandoci a disperdere il suo valore. Qual è per te una buona definizione che le rende giustizia?

Pochi giorni fa in un liceo scientifico ho chiesto di dirmi il significato della parola innovazione ai ragazzi, partendo dal latino e chiedendo dei sinonimi. Qualcuno ha detto evoluzione, altri cambiamento, io ho aggiunto rivoluzione…Poi gli ho chiesto di disegnarla, partendo dalla mia retta con una certa pendenza e gli ho chiesto: questa la chiamereste evoluzione o rivoluzione/innovazione? Hanno ragionato un po’ e ne hanno visto evoluzione…Così, procedendo con il ragionamento, ho chiesto allora a loro di disegnare la rivoluzione. E alla fine siamo arrivati a disegnare una retta che si spezza, cambiando inclinazione radicalmente: questa è l’innovazione, qualcosa dove il centro non è la tecnologia ma il progresso e la cultura e i comportamenti umani che cambiano (nella verticale c’è il progresso umano e di là il tempo). L’innovazione sta nello stacco, dove vanno convinte le persone a fare il salto di livello, dove cambiano le regole del gioco e lì ci vogliono tipicamente 50 anni; le rivoluzioni industriali durano 50 anni, ecco perché dovremmo sfatare alcuni miti…Ma non perché la tecnologia non ce la fa ma perché le persone devono abituarsi e creare valore su questo cambiamento.

 

Sei uno a cui piace muoversi tra i saperi, sostieni l’importanza di non dividere il mondo tra umanisti e tecnici in quanto è solo dalla loro unione che nascono grandi idee. Questo mi porta a valorizzare la multipotenzialità allora. Ma ti chiedo, conoscendo la storia di tanti geni multipotenziali: può esserci per te multipotenzialità senza irrequietezza?

Credo sia vero ma non lo so il perché, non sono uno psicologo, forse genetica, caso o ambiente. Sicuramente un caso diverso è Bill Gates, ingegnere, verticale e più nerd, quindi tendenzialmente più specialista e meno irrequieto…
C’è un bellissimo libro sul multipotenziale: “Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni”. Qui, in sintesi, Ludwig von Bertalanffy sostiene che le aziende sempre di più avranno bisogno di generalisti, in grado di estrarre il nettare e condividerlo con gli altri.
Io rispetto al tema ho parlato tempo fa – in un articolo per “centodieci” – dei due principali approcci alla conoscenza, utilizzando la metafora di due attività che si fanno in acqua:

  • il palombaro, “verticale, di profondità, di immersione, che non si distrae”;
  • il surfer, “con un movimento orizzontale, veloce, non specializzato, spesso collettivo, che non scende in profondità, ma si muove tra le cose che possono diventare connesse, ma mai raggiunte veramente.”

Esplorando i vantaggi e le criticità di entrambi, ho proposto un terzo approccio funzionale al nostro periodo storico, quello dello “snorkeler”: una multipotenzialità basata su una prospettiva orizzontale ma con la capacità di saper scendere in verticale quando e per il tempo che serve, così da connettere mondi, discipline e saperi, creando valore.

 In uno dei tuoi più recenti post, che ho particolarmente a cuore, hai detto: “Ehi attenzione, non vi hanno detto tutta la verità: chi lascia la zona di comfort non lo fa per masochismo, ma perché intravede la possibilità di trovarne una molto ma molto più comoda… Si tratta di vantaggiosa lungimiranza, non di amore per la fatica. E dunque, diffidate di chi vi dice di avventurarvi a caso, ma ascoltate solo chi vi insegna a guardare lontano…”. Ecco, a me va di guardare lontano e ti chiedo di dirci qualcosa in più su questa bellissima riflessione.

Questa è una verità non mia: qualsiasi innovazione prevede un momento di frattura. Chi si avventura è importante che lo faccia con una concreta visione del mondo diverso e una vera sensazione di corsa all’oro, consapevole della necessaria rottura a cui si va incontro per definizione esplorando e sperimentando. Per questo a guidare ci deve essere un solido senso di ciò che si sta facendo, un purpose chiaro e definito.
Bisogna avere quella tipica audacia che hanno tutti gli innovatori, che partono perché percepiscono prima qualcosa, pur non essendo convinti del tutto ma essendo pronti al rischio perché vedono il disegno più grande, che supera la rottura. Un po’ come è successo a me quando ho aperto, senza soldi, “TheFabLab”: c’era il design, la tecnologia, sentivo la direzione e oggi siamo 12…

 

Abbiamo entrambi contribuito al progetto editoriale “Trova la tua strada” di Vittorio Martinelli e Luigi Ranieri. Nella tua intervista c’è una riflessione molto importante. In breve, sostieni che non vada mai messo in secondo piano il ritorno concreto dell’attività sulla propria vita. E provochi facendo emergere questa idea romantica, molto italiana, secondo la quale sembra quasi un male pensare all’aspetto economico: “ci diciamo che dobbiamo lavorare per un bene superiore ma poi se quel prodotto non porta fatturato al mercato, non diventa tasse che si pagano o soldi per pagare le scuole dei propri figli e così quel bene superiore non esiste.” Anche rispetto a questo tema che ho riportato, vuoi aggiungere considerazioni o sottolineature?

Che vuol dire sognare? Io sostituirei il “I am a dreamer” con “Homo Sapiens, fatturatore seriale”. Da qui, provocando, parto per approfondire la mia riflessione. Bisogna dare concretezza, saper fare qualcosa e se c’è valore in ciò che si fa questo deve essere riconosciuto.
Se non pagano perché qualcosa è troppo avanti, è un problema: è necessario farsi capire, pensare proposte allineate o appena più avanti.

 

C’è a tuo avviso un aspetto, e se sì quale, che accomuna tutti quelli che tu definisci “fottuti geni”, quindi queste grandi figure/talenti che hanno cambiato la nostra evoluzione?

Credo siano essenzialmente tre gli elementi: talento che tutti hanno, il contesto in cui vivono e poi l’audacia (la caparbietà). Questo triangolo, in un diverso equilibrio, si ripete in tutti, dove uno è poco, sale l’altro. Tra questi, però, l’audacia vince sul talento: chi ha voglia batte il talentuoso. Steve Jobs, ad esempio, non era un talentuoso ma ha avuto molta audacia nel vedere e cambiare il mondo…

 

Se potessi avere tu un Mentor tra questi “fottuti geni” o tra altri protagonisti del passato chi sceglieresti e perché?

Vorrei fare una cena con tutti loro. Mi immagino in piedi a girare e a chiedere a ognuno qualcosa. Però sceglierei Steve Jobs; ovvio che andrei da Leonardo da Vinci, ma per insegnarmi qualcosa sul prodotto, sull’eleganza nel disegnare tecnologie, passerei da lui capace di anticipare. Ha cambiato l’umanità attraverso la sua visione, le sue intuizioni, la sua lungimiranza e mettendo insieme le idee degli altri.

 

Ti chiedo di salutarci consigliando a chi ci legge, in genere professionisti in cerca di ispirazione per la propria crescita personale e professionale, una puntata in particolare del tuo Podcast da “Fottuti geni”. Quale consiglieresti e perché?

Suggerisco un personaggio stranamente meno conosciuto e che ha, invece, una storia grandiosa: Cyrus West Field (1819-1892), imprenditore statunitense che posò il primo cavo telegrafico sottomarino, collegando e facendo comunicare l’Europa con gli Stati Uniti e rappresentando così il primo passo verso la società dell’informazione e della globalizzazione, quello che sembrava a tutti “un folle sogno” e che invece è stato un balzo avanti per l’umanità.
In lui si vede quel triangolo di cui parlavo prima e poi c’è il “cuore oltre l’ostacolo”, la lungimiranza, l’audacia, il coraggio, la resistenza, la capacità di non darsi per vinto e di mettere insieme le giuste persone.

Ispira a osare tutti i giorni, a studiare e a fare.

– ph. credits by “me” –

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