“Se le tue azioni ispirano gli altri a sognare di più, imparare di più, fare di più e diventare di più, sei un leader.”
Parto con la citazione di John Quincy Adams per evidenziare da subito l’obiettivo con cui scelgo di ospitare Professionisti: condividere la loro esperienza, fonte di ispirazione, di valore per chi cerca stimoli per apprendere, sognare e fare di più. Coinvolgo persone che ritengo essere leader di se stesse prima di tutto, ovvero chi fa accadere le cose, a partire dal proprio successo (che per me è il raggiungimento dei propri obiettivi professionali, ben definiti) e che non aspetta l’opportunità ma la costruisce.
L’avevo anticipato prima di staccare un po’ la spina per l’estate, ho avuto il piacere di intervistare Piero Armenti, una delle persone più influenti degli ultimi anni sui social. Fondatore dell’agenzia “Il mio viaggio a New York” e creatore della community più famosa riguardo la “Grande Mela”.
Ciao Piero, riprendendo dei testi nel tuo sito di te possiamo sapere che sei: “salernitano, nato nel 1979. Imprenditore, scrittore ed un urban explorer a New York. Vanity Fair ti ha definito «uno che a furia di camminare, girare e conoscere sa tutto, anche cose che non sempre si vedono». Prima di trasferirti a New York, hai vissuto cinque anni in Venezuela, a Caracas, hai viaggiato per l’America Latina. Nel 2008 sei tornato in Italia per conseguire un dottorato all’Università Orientale di Napoli. È nel 2014 che hai deciso di fondare il tour operator “Il mio viaggio a New York”, superando il difficile concorso (oltre 20 libri per prepararsi) per avere la licenza turistica nella Grande Mela (sei stato uno dei pochi italiani a farcela). Oggi guidi e sei il volto famoso dell’agenzia italiana numero 1 a New York con sede a Times Square (324W 47th), dove offrite tour, attività ed esperienze uniche per far conoscere la vera anima di questa metropoli. Giornalista professionista, hai scritto molto per diverse testate e riviste, oltre che libri di successo, editi da Mondadori, “Se ami New York” e “Una notte ho sognato New York”. Cosa aggiungeresti di meno noto su di te?
Pochi lo sanno ma sono un collezionista di libri di valore, le prime edizioni. Quello a cui tengo di più è “Chiedi alla polvere”, un romanzo del 1939 di John Fante. Ma ne ho diversi. Mi piace tenerli in mano, immaginare il viaggio di questi libri quando non erano ancora dei successi e non nascevano per esserlo.
Che lavoro sognavi da fare da bambino e quale associazione riscontri nel Piero professionista di oggi?
Da bambino sognavo di fare il giornalista e lo scrittore di romanzi e l’ho fatto nel modo moderno, mettendo in pratica il piacere della narrativa.
Il primo progetto in questa direzione è stato la pagina Facebook, dove ho iniziato a pubblicare i post come racconti sulla vita quotidiana di un italiano all’estero; questa mi ha dato tante soddisfazioni. Su Facebook prima si scriveva di più e ancora oggi i contenuti sono premiati, qui molto di più rispetto agli altri social.
Quali sono state – sinteticamente – le tappe più rilevanti del tuo percorso professionale?
A 23 anni il progetto Erasmus e questo lo sottolineo particolarmente. Fu casuale, era luglio, studiavo giurisprudenza. Passando all’università, dall’ufficio, una signora mi disse: “Vuoi partire? Ci sono più borse di studio che richieste…”. A me sembrava folle che non ci fosse la fila. C’erano davvero tanti pregiudizi lontani dalla verità, come il fatto che in Spagna si perdesse tempo o gli esami fossero facili. In realtà a me questa opportunità ha aperto tante strade. Quindi, ci tengo a condividere con fermezza un messaggio: viaggiate!
Tra le altre tappe rilevanti: il tirocinio in Venezuela al consolato e il lavoro da giornalista sempre qui; poi l’apertura della pagina Facebook e la creazione del tour operator.
Come è cambiata la tua vita con il successo di “Il tuo viaggio a New York”?
Concretamente ho avuto la possibilità di entrare in contatto e incontrare più facilmente tante persone diverse e interessanti. Poi la possibilità di vivere dove ho sempre sognato, a Manhattan. E, quando torno in Italia, il fatto di essere riconosciuto e tanto spesso salutato da persone che non conosco, anche di età molto diverse tra loro.
A quale errore sei più grato?
Ne faccio continuamente. Non considero gli errori come imprenditore perché quelli sono fisiologici, se non sperimenti non sopravvivi, per me sono prove, la validazione.
Penso, invece, una cosa accaduta ai tempi del dottorato all’Università. C’era un convegno e ognuno di noi doveva parlare di uno scrittore. Io affrontai questo evento con la presunzione di essere pronto e la convinzione che sarebbe andato bene, senza starmi troppo a preparare. Non riuscii a parlare, mi prese il panico, iniziai a tremare. Mi ricordo ancora, subito dopo l’evento, molto mortificato al bancone del bar a bere un whisky, una scena “alla Hemingway”, in cui capii che era arrivato il momento di crescere. E da qui ho imparato l’importanza di prepararsi sempre e di essere focalizzati.
Da grande voglio fare l’Influencer”. Più o meno questo è il sogno che sempre più giovani hanno. Per uno come te che non solo ce l’ha fatta ma vanta una fama mondiale, tanti non hanno chiarezza di come trasformare in un lavoro davvero soddisfacente questo sogno. A tutti quelli che vogliono trasformarlo in un progetto professionale concreto, cosa consiglieresti?
Ormai gli “Influencer” si offendono se li chiami così, preferiscono “Content Creator”, questo a dimostrazione di come cambiano velocemente gli scenari, in cui il fare diventa rapidamente passato.
Ripartendo da questa considerazione sui cambiamenti, mi soffermo sui social che nascono e scompaiono, dove le dinamiche evolvono costantemente perché sono fluide e vivono di fenomeni. Penso, ad esempio, a TikTok che adesso si focalizza sul contenuto e dimentichiamo chi lo produce.
Consiglio di focalizzarsi sulla velocità con cui si costruisce qualcosa di solido intorno al social, sulla realtà imprenditoriale dietro. Nel mio caso il tour operator.
Trend di mercato e nuove professioni: pensiamo, ad esempio, a quanti guardando le statistiche stanno spingendo i figli molto piccoli a imparare a programmare. Quanto a tuo avviso vanno indirizzate le scelte dei giovani?
Per me è importante partire sempre dalla passione e creare la propria strada da qui. Stando con i piedi per terra, però, credo che ci stiamo convincendo, sbagliando, che tutti abbiano una passione o vogliano realizzarsi attraverso il lavoro. È irrealistico, la chiave sta nell’equilibrio, anche nel pensare che non tutti desiderino la realizzazione.
In sintesi, se si ha una passione è importante perseguirla e farla diventare una professione, se non c’è invece – che può essere normale e molto frequente – può essere utile seguire il mercato o magari le attività familiari se ci sono.
Hai davvero tante esperienze di successo che potresti raccontarci e provo a farti “la domanda da un milione di dollari”. È possibile creare a tavolino una campagna di comunicazione che si viralizzi?
Credo importante riflettere prima di tutto sulla piattaforma, quindi l’importanza della differenziazione rispetto al social e non tanto per il singolo contenuto. Questo cambia molto le dinamiche ed è quindi fondamentale essere sempre pronti, da una parte, a cogliere le virate delle nuove generazioni verso altri tipi di social e, dall’altra, a saper interpretare i fenomeni sociali.
In genere la viralizzazione si ha quando c’è qualcosa che polarizza le opinioni e crea il caso. Penso ad esempio al mio video sui macchinari per le pizze, che fece 42 milioni di visualizzazioni in 48 ore.
Anche qui, però, più che la viralizzazione del caso, ciò che conta è la coerenza del progetto, la percezione dell’ecosistema. Nel mio caso l’essere identificato con New York, come imprenditore, con il tour operator.
Più si diventa noti e seguiti sui social e più crescono anche gli “effetti collaterali”. Si riesce e come a passare oltre l’odio e l’invidia online?
Se ci si rende conto di non avere la stabilità emotiva, i commenti non vanno letti. Mi spiego meglio, spesso il nostro cervello tende a focalizzarsi sull’aspetto negativo, ignorando, invece, quelli positivi che sono la maggior parte. Anche nel caso ci fossero 99 feedback positivi e un unico negativo, la mente tende a soffermarsi su quest’ultimo.
Per me se questi commenti creano emozioni negative, infastidiscono, non vanno guardati. Io non li leggo quasi mai perché non arricchiscono e non danno nulla all’interazione. Non sono d’accordo con gli esperti che consigliano di rispondere. Io credo che si debba mantenere la barra dritta sulla propria comunicazione e sugli obiettivi personali senza fermarsi sull’ignoranza degli insulti.
Ti chiedo di salutarci, condividendo con noi – community dei professionisti, che sono quelli che leggono più frequentemente il mio blog – un luogo a New York da visitare come fonte di ispirazione. Ovviamente ti chiedo qualcosa di generico 🙂
Senza dubbio suggerirei una passeggiata a Brooklyn Heights, vedere il tramonto con la vista sullo skyline di Manhattan. Se avete dubbi, volete riflettere, questo è un posto dove farlo. Rende felici.
Grazie a Piero per l’umiltà che trasmette sempre nell’approccio e nei messaggi (valore chiaramente sentito nel profondo, per riuscire a mantenerlo così fermo, nonostante il successo e la notorietà) e per la disponibilità e generosità, assolutamente non scontate. E grazie al brillante Giovanni Cavaliere per aver reso possibile questa intervista!
– ph. Profilo Officiale Facebook Piero Armenti –