Novembre 4, 2021

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“Se le tue azioni ispirano gli altri a sognare di più, imparare di più, fare di più e diventare di più, sei un leader.”

Parto con la citazione di John Quincy Adams per evidenziare da subito l’obiettivo con cui scelgo di ospitare Professionisti: condividere la loro esperienza, fonte di ispirazione, di valore per chi cerca stimoli per apprendere, sognare e fare di più. Coinvolgo persone che ritengo essere leader di se stesse prima di tutto, ovvero chi fa accadere le cose, a partire dal proprio successo (che per me è il raggiungimento dei propri obiettivi professionali, ben definiti) e che non aspetta l’opportunità ma la costruisce.

Per questa seconda intervista ho pensato di coinvolgere Fabio Salvi, Head of HR Flixbus Italia.

Fabio Salvi, un HR Manager “disruptive”, Pro Persone, non dipendenti Ciao Fabio, per prima cosa ti chiedo di presentarti utilizzando un’immagine/metafora e con un tweet

Da 15 anni cerco di contribuire a costruire aziende inclusive e rispettose, dove lavorare, crescere, imparare e, perché no, anche divertirsi. Lavoro per le Risorse Umane, non nelle Risorse Umane.
Per quanto riguarda la metafora, vorrei sembrare un libro di poesie… Non ha una trama lineare, ma un senso. Per qualcuno è assolutamente inutile, qualcuno lo legge con le lacrime agli occhi. Puoi aprire una pagina a caso, senza per forza cominciare dal principio, trovandoci qualcosa di speciale. Non ti insegna come vivere, ma condivide emozioni, immagini, domande.
Fossi così, sarei un gran figo. In effetti sono così, è che non si sa ancora se il poeta è Leopardi o un anonimo poeta di periferia!

Ti ho definito “disruptive” nel titolo. Cosa significa per te questa parola tanto usata negli ultimi anni?

Ho iniziato a lavorare in questo settore partendo dalla constatazione di un disagio. Disagio personale che mi prendeva la domenica sera quando pensavo alla settimana lavorativa, disagio condiviso dalla stragrande maggioranza delle persone che conoscevo, che vivevano aspettando il weekend. Eppure partecipando allora e anche oggi a convegni e webinair HR, il racconto che sento è di lavori pieni di senso, in organizzazioni splendenti gestite da manager illuminati. Essere disruptive per me significa riconoscere questo disagio, riconoscere che molti manager non sono affatto illuminati e che le aziende non sono luoghi favolosi. Se non si parte dall’accettazione di questo dato di realtà non si può davvero cambiare nulla di significativo. La maggior parte delle organizzazioni hanno amplissimi margini di miglioramento, come le persone che le sostanziano, come il significato culturale che diamo al lavoro e al suo campo semantico. Partiamo da qui. Essere disruptive significa questo per me, riconoscere finalmente un sintomo enorme, chiamarlo con il suo nome senza sbrodolate da employer branding e provare a cambiare le cose, in modi diversi da quelli che da sempre non funzionano. Guardare la realtà ed essere pragmatici, cercare soluzioni, provare, sbagliare e ricominciare, comunicando e coinvolgendo sempre in modo totalmente trasperente le proprie persone. Questo è buon senso, che diventi disruption è la chiara manifestazione dello stato assolutamente migliorabile delle cose.

Ti propongo un piccolo esercizio: disegnare la mappa dei puntini che ti hanno portato a ricoprire il ruolo di oggi, evidenziando le tappe centrali, considerando anche gli studi

Non dimentico di essere partito da ragioneria, una materia pragmatica, basata sui numeri e su una fotografia contabile della realtà, passando poi dalla laurea in psicologia, fondamentale per la mia crescita umana prima ancora che professionale. Poi tutti i lavori che ho fatto mentre studiavo e nei primi anni dopo la laurea… Operaio, barista, venditore porta a porta, consulente di vendita, formatore informatico… Esperienze non sexy da mettere in CV, ma che mi hanno portato a vedere e riconoscere i problemi e le condizioni reali delle persone che lavorano, sul campo. E poi LinkedIn, l’avvento della rete mi ha portato a costruire negli anni un network di persone che stimo, un circolo vivo di continuo apprendimento e mutuo aiuto che mi consente di avere sempre stimoli e visioni diverse rispetto alla realtà che vivo. L’autoreferenzialità è il pericolo che ognuno di noi dovrebbe massimamente evitare.

Quale pensi sia stato il fallimento che ti ha insegnato maggiormente, a cui devi di più?

Sono così abituato all’errore che non mi impressiona ormai più di tanto, ricordo all’inizio della mia carriera errori banali che mi sembravano enormi da togliere il sonno e che con il senno di poi mi fanno sorridere… Ci sono però errori che ricordo più di altri, perché hanno inciso su relazioni, spezzato aspettative, fatto male ad altre persone… Durante il mio primo ruolo manageriale le cose non andavano benissimo, ero sempre in mezzo a due diligence, riorganizzazioni aggressive e licenziamenti. In una circostanza dovevo lasciare a casa una persona con cui avevo condiviso la scrivania per tre anni, condividendo quotidianamente praticamente ogni cosa. Quando è arrivato il momento di comunicarlo non me la sono sentita, e ho permesso che altri lo facessero al posto mio, quando proprio per il legame che si era creato era ancora di più una mia responsabilità. Non è stata sensibilità, ma codardia fuggire a questa cosa. È bello fare il manager, ed essere vicino alle persone quando le cose vanno bene… Ma quello sono capaci tutti. È quando va male che c’è bisogno di esserci, metterci la faccia e prendersi anche uno sputo in faccia nel caso.

Ho sostenuto con forza la tua sensibilizzazione in rete per smettere di usare la parola “dipendente”, che, al di là degli aspetti contrattuali, è una definizione umana che anche a me, letteralmente, mette i brividi… Ti va di condividere anche qui la tua visione?

Le parole disegnano un mondo di significati, non è una questione di lana caprina. La parola DIPENDENTE significa letteralmente “avente il sign. di «(persona) che dipende da, che non può fare fisicamente o psichicamente a meno di” (Treccani). Quindi le persone non possono fare fisicamente o psichicamente a meno dell’azienda o è piuttosto vero il contrario?
Se vogliamo avere una visione nuova e olistica delle organizzazioni dobbiamo usare parole diverse rispetto a quelle che per decenni erano nel campo semantico della subordinazione e del paraculismo. Se l’organizzazione non è più una piramide a disciplina militaresca, ma piuttosto una rete neuronale in cui ogni persona può dare il proprio contributo, se il valore sta nelle persone e nelle loro relazioni non più statiche ma funzionali alla situazione e alla competenza, possiamo usare la parola “dipendente”? Ogni cambiamento reale porta parole e significati nuovi, per la parola “persona” è perfettamente adeguata.

Ti occupi di risorse umane, una professione non sempre compresa. Anzi, come dici tu, “lavori per le Risorse Umane”. Provi a spiegare il più semplicemente possibile cosa fa un HR?

Beh, le risorse umane hanno fatto storicamente di tutto per non farsi comprendere, e in molti casi è stato pure meglio così. Ora un HR per stare su un livello alto dovrebbe ricordare alle organizzazioni che prendersi cura delle persone, fa bene al business, non è un tema solo etico, ma anche funzionale al raggiungimento di risultati economici migliori. Una persona motivata, formata, coinvolta rende meglio di una che non lo è… Acqua calda, vero? Eppure non funziona così, perché è sempre stato più facile CONTROLLARE piuttosto che responsabilizzare, formare, facilitare. Quindi un HR dovrebbe assicurarsi che l’organizzazione per cui lavora sia rispettosa delle persone, permettendo loro di esprimere il loro potenziale e metterlo, anche, al servizio dell’organizzazione. Per fare questo è necessario che tutti i processi, strumenti, decisioni e persone siano allineate a questa visione.

Ci puoi dire qual è il lato più difficile e/o complesso del tuo lavoro?

Il lato complesso deriva dal fatto che, portando le persone al centro del pensiero organizzativo, bisogna poi riconoscere che ogni persona è unica, ogni contesto è diverso, ogni momento storico peculiare. Per cui non si finisce mai di ascoltare, analizzare, provare, disfare e riprovare… E poi, quando si trova una soluzione, il contesto e le sue variabili cambiano e bisogna ricominciare. Mettere complessità e incertezza al centro dell’equazione. E inoltre diventa fondamentale finalmente la relazione, e nella relazione, la coerenza, la comunicazione e l’aspettativa. L’aspettativa soprattutto. L’HR da solo non va da nessuna parte, per quanto bravo, non può fare davvero nulla se le persone non si muovono per conto loro. Io posso disegnare la mappa e sistemare la segnaletica, ma la responsabilità di camminare resta individuale.

Personalmente, più guardo i volti nelle organizzazioni – compreso il mio – più sostengo che lo scenario ci stia facendo fare i conti con le vere priorità e ci richieda nuove valutazioni, pesature, equilibri. Soprattutto, un rinnovato modo di vivere il lavoro. Troppi volti stanchi, troppa comunicazione a tutte le ore e nel frattempo viviamo una pandemia. Non a caso alcuni si stanno dimettendo e molti ripensando, mettendo al primo posto salute mentale e fisica, partendo da un corretto bilanciamento vita-lavoro che passi dal senso profondo delle nostre vite. Serve un significato e lavorare tanto per lavorare oggi sembra davvero un concetto fuori tempo, oltre che poco etico e sostenibile. Forse è ora che qualcuno dica che il mito della realizzazione personale che passa dal lavoro ha più distrutto che reso felice le persone. Premi e riconoscimenti a cosa servono lontani dalla profondità della vita? Quindi, Fabio, qual è la tua visione? Rispetto a questo tema è cambiato qualcosa con la pandemia?

Non lo so… Io personalmente sono piuttosto deluso… Tutto questa energia di gente che canta dai balconi, l’opportunità dei vari cigni neri mi sembra evaporata per lasciare spazio a una certa aria di restaurazione. Il “new normal” mi sembra il francamente dimenticabile “old normal” con una mano di bianco e qualche parolina carina per infiocchettarlo. Tanta gente ha capito che il concetto di “valore” non si esprime in euro, ma in qualità della vita, delle relazioni e delle esperienze. E le tante dimissioni, i cambi di vita completi, le startup che fioccano in un momento comunque incerto stanno a significare questo, e a significare che le persone non lo hanno totalmente capito. Lo smartworking è cultura ed etica del lavoro, non si fa portando a casa il PC e con policy “però non devi stare a casa il venerdì”, come sento spesso. Questa è la mano di bianco… Alle aziende serve buttare giù il muro. O, per restare nella metafora, la casa rischia di restare vuota.

Qual è una causa che ti senti di valorizzare con la Community dei professionisti, tu che sposi tante battaglie importanti?

Io mi sono esposto molto, beccando del fascista, del comunista, del novax, del coglione. Io onestamente sono rimasto basito dal silenzio e dal mancato dibattito sul tema del green pass per lavorare, che trovo un provvedimento eticamente aberrante, inutile dal punto di vista della sicurezza dei lavoratori, e soprattutto una misura in cui lo Stato ribalta su imprese e cittadini una responsabilità che è solo sua, oltrettutto incoraggiando odio e divisione sociale con una comunicazione aggressiva e divisiva. Conosco moltissimi colleghi che la pensano come me, ma che non dicono nulla e non prendono posizione perché sentono di avere le mani legate o temono ritorsioni aziendali. Ma che mondo è questo? Paura del covid, paura di esporsi, paura di tutto. Quindi prendo spunto dall’attualità del green pass per un tema che mi sta molto a cuore, che è riscoprire il valore della cittadinanza, dell’impegno, del volontariato… Come resistenza a una visione sociale e antropologica che ci vuole meri consumatori. Le cose cambiamo se ci impegniamo affinché cambino, altrimenti prendiamoci il new normal.

Leggi molto e a te chiedo di salutarci con la tua poesia preferita, condividendo con noi anche il perché

Io adoro la poesia, ho anche versi tatuati sul petto… Allora quella potrebbe essere la mia poesia preferita… Ma mi sento di cambiare sempre un poco ogni giorno… Quindi posso dirti qual è la mia poesia preferita di oggi, della mia poetessa preferita, Wislawa Szymborska, il cui discorso quando le è stato conferito il Nobel dovrebbe essere secondo me una preghiera recitata nelle scuole. Ma tornando a noi:

“C’è chi meglio degli altri realizza la sua vita.
È tutto in ordine dentro e attorno a lui.
Per ogni cosa ha metodi e risposte.

È lesto a indovinare il chi il come il dove
e a quale scopo.

Appone il timbro a verità assolute,
getta i fatti superflui nel tritadocumenti,
e le persone ignote
dentro appositi schedari.

Pensa quel tanto che serve,
non un attimo in più,
perché dietro quell’attimo sta in agguato il dubbio.

E quando è licenziato dalla vita,
lascia la postazione
dalla porta prescritta.

A volte un po’ lo invidio
– per fortuna mi passa.”

Adoro questa poesia, mi ricorda molto semplicemente che il senso va cercato non tanto nelle risposte, ma nella qualità e varietà di domande che ognuno di noi dovrebbe porsi.

Foto di Patrick Tomasso su Unsplash

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