“Se le tue azioni ispirano gli altri a sognare di più, imparare di più, fare di più e diventare di più, sei un leader.”
Parto con la citazione di John Quincy Adams per evidenziare da subito l’obiettivo con cui scelgo di ospitare Professionisti: condividere la loro esperienza, fonte di ispirazione, di valore per chi cerca stimoli per apprendere, sognare e fare di più. Coinvolgo persone che ritengo essere leader di se stesse prima di tutto, ovvero chi fa accadere le cose, a partire dal proprio successo (che per me è il raggiungimento dei propri obiettivi professionali, ben definiti) e che non aspetta l’opportunità ma la costruisce.
Per questa nuova intervista ho pensato di coinvolgere Sebastiano Zanolli, Manager, Advisor, Autore, Speaker
Ciao Sebastiano, sei un manager, esperto di gestione del cambiamento, speaker, advisor, hai un’esperienza sul campo lunga 30 anni, un grande seguito di pubblico; cosa puoi aggiungere con un tweet e con un’immagine metaforica per raccontarci qualcosa in più di te?
A questa presentazione, più che aggiungere, integro una domanda che mi rincorre da sempre, che mi faccio spesso, e che ho capito risuonare molto anche negli altri: qual è il prossimo capitolo della tua vita e chi è che lo scriverà? Il capitolo non lo scriviamo mai tutto da soli, perché ci sono degli aspetti che naturalmente sfuggono, ma non dobbiamo mai dimenticare quel tentativo di dare un minimo di trama alla nostra vita e che è una bellissima opportunità.
Come immagine, per raccontare qualcosa in più di me, scelgo un giardiniere o un florovivaista e non perché mi piaccia nella vita questa specifica attività pratica, quanto quella metaforica idea del “gardening” di me e delle altre persone, la missione di colui che fa il meglio con quello che ha, con i semi a disposizione, grazie all’attenzione, alla pazienza e alla sua capacità di cura.
Hai sempre lavorato nell’area delle vendite e del marketing e sei un autore di libri. Rispetto alla tua scrittura affermi: “Aspettatevi piuttosto semplicità. Tanto più spiazzante quanto più semplice.” Come è nata la tua passione, come si concilia con il mondo del lavoro e qual è stato il tuo primissimo passo con la scrittura?
La passione per la scrittura l’ho sempre avuta, mia madre da bambino mi ha fatto leggere centinaia di volte “Il libro cuore”. Ho in mente, però, un momento chiaro di “Life Changing” in questo senso, a scuola, ero in quarta elementare. La maestra ci aveva assegnato un tema sul temporale e lei, che adoravo, una volta letto ha fatto due cose: ha chiamato mia madre (e lei si preoccupò molto per questa chiamata…) per farle i complimenti e poi mi chiese di andare a leggere il tema in tutte le classi. Fu un tipico caso del tutore che stimola una passione, un amore… Questa è una spiegazione a posteriori però.
Il punto in cui ho iniziato a scrivere veramente, per professione è stato intorno al 1994, quando ai tempi in azienda, prima ancora dell’arrivo dei social, mi animava l’idea di scrivere e condividere con gli altri le mie riflessioni. Così sono partite le mie prime newsletter nelle e-mail, poi ne ho dato un ordine, fino ad arrivare al mio primo libro “La grande differenza”.
La scrittura si concilia male con il mondo del lavoro, o meglio, io ho trovato una soluzione: scrivere di lavoro, quindi farli convivere; parlo di ciò che scrivo, scrivo quello che faccio e così via. Contemporaneamente, mi sono accorto anche di non essere portato per i romanzi – con cui mi sono cimentato ma non ho il talento giusto – quanto per la saggistica, la manualistica e le scritture ad uso pratico.
Ti propongo un piccolo esercizio: disegnare la mappa dei puntini che ti hanno portato a ricoprire il ruolo di oggi, evidenziando le tappe centrali, considerando anche gli studi
Una prima tappa sono state le elementari perché per cinque anni ho avuto la stessa maestra, che è stata molto importante per me, come anticipato. Lei che ha dedicato tutta la sua vita ai suoi bambini, all’insegnamento; una maestra di quelle come c’erano una volta. Delle medie, invece, ho un ricordo insipido. Poi il liceo scientifico è stato un momento che mi è piaciuto molto, perché amavo le materie che studiavo, latino, storia, filosofia, ecc.
All’inizio dell’Università un’altra volta male perché non capivo il funzionamento del sistema, le strutture, lo trovavo caotico ai tempi…Poi ho iniziato a lavorare come venditore e qui, figlio di un artigiano e di un’operaia, non è andata particolarmente bene, non ero preparato e non avevo le competenze da commerciale.
Così, ripensandoci a ritroso, dico che tutte le tappe centrali sono nate nel passaggio di disagio, da un momento in cui stavo bene ad uno in cui stavo male, quindi, nell’occasione di rimettermi in discussione, cercando soluzioni e persone che ci fossero già passate per ritirarmi sù. Quelle fasi in cui lo studio mi ha salvato.
Credo che negli anni, però, una volta iniziato a lavorare, ho trovato e imparato un metodo per non rimanere fermo in uno stesso punto e anticipare le problematiche. Continuare, quindi, ad avere un piano di applicazione in quello che sapevo fare e, contemporaneamente, preparare anche altro, puntando su ciò che in quel momento non mi serviva ma che pensavo mi sarebbe servito, beccando dentro a volte programmazione e altre fortuna. Quindi ho inglobato uno studio continuativo, in modo prospettico, nell’attività di ogni giorno.
Come vedi il mondo del lavoro oggi tra ibrido, Remote Working e “grandi dimissioni”?
Prima di tutto penso sia fondamentale distinguerlo nella grande polarizzazione: tra quello dipendente, nelle aziende, dove il lavoro ha un certo significato, dei confini, una buona strutturazione e retribuzione; e quello legato al mondo dei freelance e delle partite IVA, dove ognuno deve inventarsi e mantenersi ogni giorno, dentro ad una non regolamentazione, si è soli nella competizione e dove contano solo i risultati. L’essere “padrone di sé stessi” è un’idea e non una verità; si è deboli di fronte ad un sistema molto competitivo, dove si deve lavorare molto.
Immagino, di conseguenza, almeno due futuri e sicuramente di più, in corrispondenza della soggettività delle persone, di quelle che sono felici con una sola dipendenza e di quelle che, invece, ne hanno 20 da cui dipendere ma tra cui possono scegliere; sono modi diversi di vivere la vita e il lavoro.
Il Remote Working o “le grandi dimissioni” sono quindi temi interessanti che, però, toccano solo alcuni. In sintesi, vedo il mondo del lavoro in grande divenire, tra evoluzioni diverse.
Nella tua Headline su LinkedIn si legge “raggiungere gli obiettivi mantenendo la propria umanità”. E allora provo a chiederti tre consigli per i manager di oggi, alle prese con la guida e la cura delle persone in questo periodo così particolare
- Irrobustirsi psicologicamente, perché verrà richiesto loro, sempre di più, di gestire maggiore complessità e caoticità
- Prendersi cura delle persone che non sono ingenue e sanno riconoscere la vera o la non autentica attenzione, sanno leggere i passaggi strumentali
- Crearsi alternative perché potrebbero essere sempre più utili… Questo per me rimane un leitmotiv come consiglio, perché i ruoli manageriali vengono messi in discussione dalla mattina alla sera.
Parli spesso di “la grande differenza”, il tuo blog e tante tue card e messaggi ispirazionali sono incentrati su questa. Ti va di raccontarci cosa intendi?
È un tema che affronto da tanti anni, a cui ho dedicato il primo libro, che ho ripubblicato dopo 15 anni, aggiornato, e che è diventato un po’ il payoff di ciò di cui mi occupo.
La grande differenza, sostanzialmente, è riuscire a realizzare ciò che si ha in testa con competenze e umanità, quindi con tecnica e, contemporaneamente, in un’ecologia del sistema che non crei problemi o che non danneggi gli altri, che hanno lo stesso diritto di fare la loro grande differenza.
Sinteticamente, fare ciò che si desidera in modo sostenibile per sé, per gli altri, per il mondo e per il pianeta.
Cosa significa per te innovazione? Tra l’altro, mi ha molto colpita una riflessione che ho letto in un tuo articolo – “Vecchie ciabatte in nuovi scarponi: fare il massimo con ciò che abbiamo, che spesso è poco, vecchio o in disuso” – dove sostieni che spesso l’assenza delle risorse sia ciò che determina l’innovazione. Perché secondo te?
L’innovazione è trovare collegamenti nuovi tra informazioni che non sono necessariamente nuove, collegare in modo diverso elementi disponibili. Questo può essere applicato ovunque.
Rispetto al mio articolo che hai citato, ripropongo la “Jugaad Innovation”, termine hindi che sta ad indicare la tecnica per arrivare velocemente, con creatività, ad una soluzione subottimale – non quella perfetta –, attraverso ciò che si ha a disposizione; in sintesi, fare ciò che si può, trasformando le difficoltà in opportunità.
Questo dimostra come spesso siano la necessità e la scarsità – e non l’abbondanza – a stimolare l’ingegno; le nostre migliori energie si attivano quando siamo costretti a tirarle fuori, grazie ai principi biologici che ci guidano. Non dico che dovrebbe essere sempre così, stare sempre in uno stato di necessità, ma questo aiuta molto nel trovare soluzioni innovative diverse dal solito.
“Alternative” è il titolo di uno dei tuoi più recenti libri. Le hai già suggerite ai manager ma chi le deve avere e perché?
Consiglierei a tutti di avere le alternative perché sono la misura della dignità che si può mantenere in un sistema economico come il nostro, di libero mercato, sempre più competitivo. Ad esempio, avendo alternative, si evita lo sfruttamento e questo a tutti i livelli…
Le aziende su questo sono avanti, lo comprendono perfettamente e hanno sempre diversi fornitori; le persone tendono a farlo meno. Avere alternative vuol dire conoscere più cose e più persone: più conoscenze di qualsiasi cosa e più conoscenze rispetto ad altre persone. In un sistema sociale come il nostro, le alternative vengono dal conoscere informazioni e collegarle (innovazione) e sono proporzionali al numero delle persone che si conoscono perché è attraverso le persone che passano le soluzioni ,che si trasformano in profittabilità economica.
Mi hai già dato una risposta proprio con questo ultimo ragionamento ma cosa pensi del networking? Hai una storia da raccontare particolarmente significativa al riguardo?
Ne ho scritto un libro nel 2005: “Una soluzione intelligente alle difficoltà quotidiane. Creare reti di relazione per affrontare il caos di ogni giorno”. Credo che fare relazioni sia il modo attraverso il quale ci creiamo nuove soluzioni e ricchezza.
Trai tanti racconti potrei dirti che una volta, molti anni fa – i social erano appena nati – all’apertura di un nuovo negozio a Milano, il Presidente dell’azienda per cui lavoravo allora voleva che ci fossero in esposizione dei libri fotografici di un famoso editore tedesco. Mancavano tre giorni all’apertura e non sapevo dove trovarli, era impossibile… Attraverso una serie di contatti, sui social, arrivai all’assistente personale dell’amministratore delegato di questa azienda tedesca, lei mi mise in contatto con altri e così riuscii a farli arrivare in tempo. E questo, naturalmente, non sarebbe accaduto senza una rete strutturata di contatti.
Ultima domanda: se dovessi scegliere uno tra i tuoi tanti articoli o libri per ispirare i professionisti, quale sceglieresti e perché?
Propongo un estratto dal libro “Alternative” – Lettera a chi non se l’aspettava, che sintetizza il paragrafo “lettera ad un over 50 in difficoltà”. È una lettera a me ed è una riflessione tragicomica sulla vita che va come vuole lei e non necessariamente come desideriamo noi, anche quella professionale. Uno scritto incentrato sull’importanza di trovare una quadra tra le aspettative e la realtà, senza cadere nel mood nichilista o idealista.
Grazie Sebastiano, sono stata la prima a leggere questo tuo spunto finale, toccata dalle semplici parole con cui mi ha catturata sin dall’inizio:
“Caro Sebastiano, dì la verità.
Non avresti mai pensato di invecchiare e invece è successo.
Succede a tutti, anzi succede a quelli che hanno fortuna, ad alcuni non succede.
Quindi segnati questo, sei già stato fortunato.
A volte va così.”
Mi hai ricordato che non c’è niente che sia per sempre ma anche il grande problema della confusione del valore spirituale, umano, concettuale delle persone con quello che il mercato chiede e l’importanza di distinguere sé stessi dalla identità che il lavoro costruisce attorno a noi.
Hai rafforzato in me una più recente (ahimè) consapevolezza che prima di tutto debba essere messa al centro la nostra cura e quindi il movimento perché il cervello si rincoglionisce prima se non ossigeniamo il corpo…
Ancora una volta in me, leggendoti, si accende l’area di miglioramento della pazienza, senza però perdere la spinta ad agire in fretta in questo mondo in cambiamento, su cui surfare ogni giorno in modo diverso per sopravvivere…
Foto di Sandie Clarke su Unsplash